A proposito del Registro comunale delle Disposizioni Anticipate di Trattamento

Venerdì 24 giugno, il Consiglio Comunale di Sondrio sarà chiamato ad esprimersi per introdurre in città il Registro delle Disposizioni Anticipate di Trattamento. A tal proposito, la segreteria del Consiglio Pastorale vuole proporre per la riflessione un commento che sull'argomento aveva proposto nel mese di febbraio monsignor Angelo Riva, docente di Teologia morale alla Facoltà Teologica dell'Italia Settentrionale e direttore del Settimanale della Diocesi di Como.

 

UNA SOLUZIONE PARZIALE E PERICOLOSA (di mons. Angelo Riva - Il Settimanale della Diocesi di Como, 20 febbraio 2016)

Le DAT (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento) sono una soluzione difettosa e parziale, e anche pericolosa, a un problema serio.

Il problema serio è quello del cosiddetto accanimento terapeutico, altresì detto “irragionevole ostinazione terapeutica”. Si tratta di uno degli “effetti collaterali” della civiltà tecnologica. L’invasione della tecnologia, infatti, ci ha in mille modi migliorato e semplificato la vita, ha potenziato come non mai la nostra capacità di lottare contro malattia e morte, ma ha anche introdotto il rischio di umiliare e offendere la dignità del malato, trasformando il suo corpo, già fiaccato dall’infermità, in un campo di battaglia dove sferragliano i più mostruosi aggeggi e armamentari tecnologici. Se, fino a poco tempo fa, quello che l’arte medica sapeva fare, nella secolare lotta contro il male fisico, era sempre maledettamente troppo poco, ora si è per così dire scoperto anche il lato opposto del fronte: così, mentre si deve continuare la lotta terapeutica (guai ad abbandonare il malato, o a desistere dal fare ciò che è giusto e ragionevole fare!), si deve anche stare ben attenti a non eccedere con l’impiego di mezzi terapeutici sempre più sofisticati ed invasivi.

La soluzione vera, al problema dell’accanimento terapeutico, però già esiste. Sta scritta nel Codice di Deontologia Medica, e, se vogliamo, nella competenza, unita al senso di umanità, che per fortuna caratterizza gran parte dei nostri medici. Si tratta, cioè, di praticare e affinare una cultura della cura che favorisca il dialogo, clinico e umano, fra medico e paziente (“alleanza terapeutica”) in vista della decisione da prendere. In maniera tale che essa sia rispettosa di tutti i valori in gioco: la dignità e la libertà del malato, ma anche la competenza del medico, il bene della vita, il dovere di curare e di curarsi (valori addirittura costituzionali). Si tratta, inoltre (e soprattutto nei casi più difficili), di investire risorse di denaro e di cultura nel potenziamento della medicina palliativa e della terapia del dolore: cioè quelle azioni di cura (“to care” in inglese) che umanizzano la malattia acuta, cronica e terminale, quando le azioni terapeutiche (“to cure” in inglese) sono ormai diventate futili, o inutilmente invasive. Nessun malato, infatti, è incurabile, anche se vi sono spesso malati “inguaribili”.

Certamente resta il problema serio di quando il malato non è più in grado di entrare in questo dialogo col medico, perché gli esiti di un trauma, o la progressione di una malattia cronica, lo hanno reso – come si dice in gergo – “incompetente”. In questi casi, dovendo il medico decidere il da farsi, può essere di una qualche utilità possedere delle dichiarazioni rese anticipatamente (e debitamente validate) dal paziente stesso, quando era in grado di intendere e di volere. Si tratta però di una soluzione alquanto difettosa e parziale, e per almeno tre motivi.

Primo, perché un conto è ipotizzare – a bocce ferme, quando si è in piena salute – una possibile malattia futura, tutt’altra cosa, e assolutamente imprevedibile, è “ammalarsi” concretamente di questo o di quello. Cosa si scateni, cioè, nella psicologia di una persona (in termini di paura, coraggio, resistenza, frustrazione e speranza, attaccamento alla vita e agli affetti), di fronte alla malattia grave, è molto difficilmente pronosticabile. La persona stessa lo scoprirà solo vivendo.

Secondo, perché le dichiarazioni rese anticipatamente non potranno comunque avere un valore assolutamente vincolante per il medico: egli, infatti, dovrà certamente prendere atto delle DAT, ma sempre secondo la sua “scienza e coscienza”; e ciò proprio nell’interesse del paziente (nel frattempo, per esempio, potrebbero essersi rese disponibili nuove soluzioni terapeutiche, sconosciute al paziente al tempo della redazione delle DAT).

Terzo – e soprattutto – perché le DAT, essendo necessariamente generiche, si fatica a capire come possano non essere pleonastiche, cioè scontate, e quindi fondamentalmente inutili. Se infatti si scrivesse “non voglio che mi si facciano trattamenti sproporzionati, o irragionevoli, o forme di accanimento terapeutico”, si direbbe qualcosa di scontato, per il quale già basta il Codice di Deontologia Medica. D’altra parte indicazioni più circostanziate, concrete e precise (del tipo: “se perdo coscienza non voglio mai essere rianimato”, “non voglio mai essere nutrito e idratato artificialmente”, oppure “desidero che mi si pratichi l’iniezione letale”) non possono entrare nelle DAT, atteso il loro carattere evidentemente eutanasiaco (eutanasia attiva o omissiva, detta anche “abbandono terapeutico” o “irragionevole desistenza terapeutica”). Viene così il dubbio che la vera conseguenza (o forse il vero obiettivo) delle DAT sia proprio questo: introdurre per via obliqua, nel nostro ordinamento, la legalizzazione dell’eutanasia. Se così fosse, le DAT sarebbero una soluzione non solo difettosa e parziale, ma molto, molto pericolosa.